Un povero capodoglio è venuto a morire nei giorni scorsi sulla splendida spiaggia di San Cataldo, a pochi chilometri da Terrasini. Sembra quasi che Santo Cataldo, la cui cappella da poco “restaurata” sorge a pochi metri di distanza, abbia voluto cullarlo fra le sue braccia negli ultimi sussulti di vita. Le autorità preposte alla sua rimozione sono state avvisate, ma in molti dubitano che possano intervenire in tempo utile prima che la decomposizione dell’enorme mammifero giunga alla sua estrema conclusione. Pare che occorrano circa 20 mila euro per il suo trasporto …
Intanto una cosa è certa: questo pomeriggio, quando ci siamo recati sul posto per filmare alcune brevi sequenze, il fetore era insopportabile tanto «orribile» che ci ha fatto tornare alla mente alcuni passi della descrizione che lo scrittore siciliano Stefano D’Arrigo traccia nel suo straordinario romanzo Orcynus Orca.
Il termine “capodoglio” deriva da “capo d’olio” e trae origine dalla sostanza oleo-cerosa presente nel cranio. A tal proposito, anche nel passato si sono verificati casi analoghi proprio nello specchio di mare compreso fra Cinisi e Terrasini così come ci racconta Faro Lo Piccolo nel libro Fammi rari un muzzicuni, ca ti cuntu un cuntu.
Di tuo padre si racconta che una volta soppresse un capodoglio. Cosa c’è di vero? o è soltanto una metafora di quel che sarebbe accaduto molti anni dopo in campo politico? (la “Balena bianca”, cioè la DC, ferita a morte da una lista civica dissidente da lui capeggiata).
«Non è una metafora, ma un fatto realmente accaduto. Mio padre nel 1940 o 1941, mise fine alle sofferenze di un enorme capodoglio che si era arenato verso Punta Mulinazzo. Era a caccia con i cani. A quel tempo avevamo al Mulinazzo la casa che l’aeroporto poi ci portò via col terreno, e dove ogni anno andavamo a villeggiare da giugno fino a dopo la festa di settembre, perché nni viriamu u iuocu i fuocu e poi tornavamo in paese perché iniziava la scuola.
Ci sparau tutta a vintriera ri cartucci e il mare diventò rosso che non finiva mai … e non c‟era niente da fare.
Mentre era a caccia sentì un rumore strano che non aveva mai sentito: era il soffione del capodoglio che era più morto che vivo. Si affacciò dalla seconda caletta, quella più vicina alla torre dal lato Terrasini e vide quest’enorme bestia morente … e cominciò a sparare (mio padre allora era giovanissimo) per accelerarne la fine e non farlo inutilmente soffrire. Poi fu trainato via mare a Terrasini e consegnato a Padre Bertolino, allora cappellano della Chiesa della Provvidenza, per farne olio per la chiesa, per le candele, lumi e cose varie oltre che in buona parte arrostito e mangiato da molti. E ti cuntavi puru chiddu rû capodoglio».
Ora i tempi sono radicalmente mutati, l’energia elettrica ha vinto il buio, le “luci di emergenza” si sono sostituite alle candele (i stiarichi) e le persone hanno ben altro di che nutrirsi. Ma di contra tutto si è per altri versi complicato. Nel ’40 bastò un gruppo di pescatori a trainare a forza di braccia su barche a remi l’enorme mammifero nella spiaggia Ciucca di Terrasini, senza nulla chiedere se non qualche etto di “cera” o un po’ di olio per i lumi. Non diciamo di rimpiangere quei tempi, ma …
IL VIDEO
Stavolta sono con Ando Gilardi.
Non fotografare gli straccioni, i senza lavoro, gli affamati. Non fotografare le prostitute, i mendicanti sui gradini delle chiese, i pensionati sulle panchine solitarie che aspettano la morte come un treno nella notte.
Non fotografare i neri umiliati, i giovani vittime della droga, gli alcolizzati che dormono i loro orribili sogni. La società gli ha già preso tutto, non prendergli anche la fotografia.
Non fotografare chi ha le manette ai polsi, quelli messi con le spalle al muro, quelli con le braccia alzate, perchè non possono respingerti. Non fotografare il suicida, l’omicida e la sua vittima. Non fotografare l’imputato dietro le sbarre, chi entra o esce di prigione, il condannato che va verso il patibolo.
Non fotografare il carceriere, il giudice e nessuno che indossi una toga o una divisa. Hanno già sopportato la violenza, non aggiungere la tua. Loro debbono usare la violenza, tu puoi farne a meno.
Non fotografare il malato di mente, il paralitico, i gobbi e gli storpi. Lascia in pace chi arranca con le stampelle e chi si ostina a salutare militarmente con l’eroico moncherino.
Non ritrarre un uomo solo perchè la sua testa è troppo grossa, o troppo piccola, o in qualche modo deforme. Non perseguitare con il flash la ragazza sfigurata dall’incidente, la vecchia mascherata dalle rughe, l’attrice imbruttita dal tempo. Per loro gli specchi sono un incubo, non aggiungervi le tue fotografie.
Non fotografare la madre dell’assassino, e nemmeno quella della vittima. Non fotografare i figli di chi ha ucciso l’amante e nemmeno gli orfani dell’amante. Non fotografare chi subì ingiuria: la ragazza violentata, il bambino percosso. Le peggiori infamie fotografiche si commettono nel nome del “diritto all’informazione”.
Se è davvero l’umana solidarietà quella che ti conduce a visitare l’ospizio dei vecchi, il manicomio, il carcere, provalo lasciando a casa la macchina fotografica.
Non fotografare chi fotografa: può darsi che soddisfi solo un bisogno naturale.
Come giudicheremmo un pittore in costume bohemien seduto con pennelli, tavolozza e cavalletto a fare un bel quadro davanti alla gabbia del condannato all’ergastolo, all’impiccato che dondola, alla puttana che trema di freddo, a un corpo lacerato che affiora dalle rovine?Perchè presumi che il costume da freelance, una borsa di accessori, tre macchine appese al collo e un flash sparato in faccia possano giustificarti?
A quanto pare all’amico Paolo Chirco non è piaciuto il servizio, il che è assolutamente normale. Anzi, aggiungiamo che magari ce ne fossero di più di commenti critici come questi. E tuttavia, dinanzi al bel testo di Gilardi, grande metafora protestataria contro l’invadenza dell’obiettivo (in gran parte condivisibile) qualcosa vogliamo dirla. Abbiamo soltanto voluto fissare un fatto, una circostanza: un capodoglio che spiaggia sulla nostra costa non è cosa che capiti tutti i giorni. Le cause possono essere varie, ma noi non siamo esperti in materia per formulare ipotesi. Sappiamo soltanto che la morte fa parte degli eventi ineluttabili della natura. Non è un atto di violenza quello che abbiamo voluto riprendere, ma, appunto, un fatto naturale come nascere e vivere e … morire. Il servizio, forse, dirà poco in sé, ma ci ha dato lo spunto per farci riflettere un po’ fra l’ieri e l’oggi e per richiamare la grande metafora di uno dei maggiori capolavori della letteratura sperimentale del ‘900 (per quanto attiene alla parte scritta dell’articolo), il che crediamo non sia poco nel silenzio dell’informazione locale.
Mi viene da piangere…