Una più che interessante indagine linguistica, ricca di questionari e tavole riassuntive, che non poteva mancare dal nostro blog per gli evidenti nessi socio-culturali con la realtà terrasinese. Ci si riferisce alla tesi di laurea di Martina Consiglio, conseguita di recente presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo.
Il punto di partenza di questa tesi è dato dalla curiosità di indagare i cambiamenti comportamentali e ideologici dei bambini e degli adolescenti siciliani all‟interno delle loro relazioni quotidiane con il dialetto.
Ho analizzato un campione di studenti del paese di Terrasini (PA), compresi entro la fascia d‟età 8-20 e ho svolto la ricerca concentrandomi sulle motivazioni profonde –per quanto sia stato possibile– di una propensione al dialetto o di un rifiuto per esso, le quali sicuramente si rivelano attraverso l‟esplicita dichiarazione da parte dei soggetti interessati, ma si rendono altrettanto manifeste osservando il contesto socio-culturale in cui essi stessi vivono.
È per questo che ho proposto agli studenti di tre gradi scolastici diversi, accanto ad una riflessione autovalutativa, un questionario in cui una parte delle domande è dedicata alla situazione familiare degli alunni dal punto di vista compositivo, culturale e linguistico, e una parte alla condizione extrafamiliare degli stessi, ovvero ai loro hobbies, alle relazioni con i compagni, alle preferenze personali.
L‟obiettivo? Entrare, attraverso l‟analisi delle risposte, all‟interno del loro mondo e cercare in questo modo di capire cosa ci sia in fondo alle loro risposte, cosa essi abbiano realmente voluto dire e, possibilmente, perché.
II. L’ambito teorico
1. Dialetto e lingua
Non è possibile iniziare a parlare di dialetto senza una premessa che analizzi il rapporto fra lingua ufficiale e dialetti, in particolare all‟interno del contesto italiano, il quale linguisticamente si distingue dagli altri paesi europei per una vicenda lingua-dialetto del tutto particolare.
L‟italiano è una lingua romanza, ovvero evolutasi dal latino. È opportuno parlare di “evoluzione” e non di “derivazione” –come purtroppo si sente spesso– perché tale processo non si manifesta come una catastrofe improvvisa, bensì come “una crisi linguistica lunga e interna, che non implica processi di semplificazione, ma lo sviluppo verso un tipo, un‟organizzazione sistematica nuova” (Rinaldi, 2008, 13). Il diretto antecedente dell‟italiano fu però un latino distinguibile sia per via diacronica sia per via diamesica dal latino classico. Il concetto di latino classico è difatti quello immobile della letteratura e del linguaggio giuridico amministrativo che riguarda in particolare il periodo aureo della latinità, tra la fine della Repubblica e il principato augusteo. Il latino che si evolve nell‟italiano e nelle altre lingue romanze, invece, è un latino che viene definito volgare o –con accezione più pertinente– parlato, colloquiale, popolare: è il latino parlato da tutte le classi sociali (non solo, quindi, dalle più umili e meno colte) nell‟epoca tarda dell‟impero romano, dal III secolo in poi.
Le conquiste di Roma si sono realizzate nell‟arco di circa cinque secoli, fra il III secolo a.C. e il II secolo d.C. e in questo lunghissimo arco di tempo il latino venne considerato la lingua dei dominatori, sovrapponendosi alle lingue locali come l‟osco, l‟umbro, l‟etrusco, le lingue celtiche e così via, le quali presero il nome di lingue di sostrato.
Fino a quando il vastissimo territorio dell‟Impero rimase integro, il latino continuò a rimanere un organismo abbastanza unitario, mantenuto tale dalla circolazione interna di merci e persone. Ma quando l‟assetto politico dell‟Impero e la sua struttura amministrativa si disgregarono (la data convenzionale della “caduta” dell‟Impero romano d‟Occidente è il 476 d.C.), la produzione e i commerci ristagnarono, l‟istruzione decadde, tutta la vita civile si impoverì, le comunità restarono isolate l‟una dall‟altra e allora anche i “latini volgari” (al plurale perché le lingue di sostrato produssero una differenziazione diareale dovuta alla loro influenza volontaria o involontaria sul latino) delle varie regioni presero a svilupparsi in direzioni divergenti. Proprio questi “latini volgari”, rimasti svincolati gli uni dagli altri e perciò spinti a evolversi indipendentemente, sono gli antenati dei diversi volgari neolatini o romanzi, ovvero degli odierni dialetti regionali d‟Italia.
In questo lento e lungo processo – per tutto il Medioevo, se non addirittura oltre, l‟unica lingua ufficiale e pubblica verrà considerata il latino classico – due fattori possono essere considerati dei veri e propri catalizzatori: il Cristianesimo –che, a partire già dal III secolo, introdusse nella lingua latina nuovi termini desunti dalla vita quotidiana e dal parlato, contenenti importanti evoluzioni dalla lingua letteraria (come ad esempio le risemantizzazioni di captivus e paganus) – e le invasioni barbariche , le quali, da un lato ampliarono il vocabolario del nascente italiano con termini desunti dalle loro attività e dai loro costumi (werra prevale su bellum, fortiam prende il posto di vim, termini completamente nuovi come sapone, feudo, albergo, ecc), dall‟altro modificano determinate caratteristiche strutturali del latino (introduzione dell‟articolo, abbandono dei verbi deponenti, mutamento del sistema comparativo, sviluppo moderno dei plurali ecc), segnando un importante passo avanti verso il nuovo assetto romanzo.
Le invasioni barbariche influirono moltissimo sulla lingua non solo da un punto di vista prettamente linguistico, ma anche da un punto di vista sociale. Esse furono considerate, infatti, la causa decisiva dell‟irreversibile “imbarbarimento” del latino, tralasciando spesso un elemento importante: le lingue barbariche agirono nei confronti di un sistema linguistico già fortemente indebolito. Di conseguenza il volgare venne a lungo concepito come una corruttela del latino causata dalla fusione con le lingue germaniche degli invasori, e la stessa definizione di „volgari‟ resterà a lungo nel vocabolario italiano per esprimere le contemporanee varietà linguistiche presenti nel territorio.
È possibile iniziare a parlare di dialetti solo tra il XVI secolo e il XVII, in quanto è a partire da questo secolo – tra le Prose della volgar lingua di Bembo (1525) e la prima edizione del Vocabolario della Crusca (1612) – che si afferma una lingua nazionale italiana, seppure limitata alla letteratura: solo ora, in una consapevole opposizione ad essa, esistono i dialetti
Ogni dialetto è dunque il legittimo erede del latino volgare e tutti sono su uno stesso livello di importanza, prestigio e antichità. Ma allora come si è creata la differenziazione di questi, a tal punto da poter affermare che “la varietà dialettale d‟Italia non ha paragone nel dominio romanzo, né negli altri spazi linguistici europei (slavo, germanico, ecc.)”1?
La risposta può essere affrontata sinteticamente attraverso tre punti:
1) Le grandi aree dialettali coincidono in modo abbastanza evidente con le aree di stanziamento delle etnie prelatine; dunque una prima spiegazione è quella, precedentemente anticipata, che nel processo di differenziazione sicuramente ha agito il sostrato linguistico.
2) Certamente sono stati importanti, inoltre, i confini naturali (il mare che isola la Sardegna, l‟Appennino che divide l‟Italia settentrionale da quella centrale, il massiccio della Sila che ostacola il passaggio via terra alla Calabria meridionale), quelli amministrativi, come nel caso delle diocesi, e quelli più prettamente politici.
3) Infine ha influito in maniera non trascurabile la diversa cronologia della latinizzazione, per cui il latino che entrava nei vari territori era un latino appartenente a fasi diverse della propria evoluzione interna.
Fu la tesi di Bembo a prevalere, la quale proponeva un canone letterario limitato a Petrarca per la poesia e a Boccaccio per la prosa, tendendo a creare un modello esclusivamente letterario, fortemente elitario e svincolato dalla realtà del parlato. Se da una parte un canone così precisamente e indiscutibilmente delineato qual era quello proposto da Bembo risulta astratto e rigido, dall’altra la proposta bembiana presenta caratteri di universalità che la resero facilmente attuabile e che le concedettero il „trionfo‟.
Da allora le numerose “questioni della lingua” che nacquero in ogni epoca storico-letteraria, riguardarono non più la contrapposizione Latino/Volgare, quanto quella di Italiano/Dialetti (2).
Ed è proprio questa opposizione che mi propongo di analizzare, soffermandomi sul contesto contemporaneo. Oggi la questione lingua/dialetto deve essere affrontata puntando l‟attenzione sul rapporto che ogni individuo della nostra società ha con il dialetto, il quale rapporto assume connotazioni non solo linguistiche, ma anche psicologiche e sociali.
Occorre dunque soffermarsi sulle ideologie che sono presenti all‟interno della nostra società, le quali sono molto spesso veicolate dai pregiudizi che gli individui hanno sul dialetto e sui dialettofoni.
2. Stereotipo e pregiudizio
Pregiudizio viene definito da Allport (1973) un “giudizio negativo sull‟altro, costruito a priori, che induce ad attribuire elementi negativi agli altri, a pensar male di qualcuno o di qualcosa” (cfr. Ruffino, 2006, pg.39). Alla base del pregiudizio vi è lo stereotipo, ovvero “l‟immagine o l‟idea relativa a categorie o gruppi che viene utilizzata per sostenere il pregiudizio” (Ruffino, 2006, pg.39). Lo stereotipo, tuttavia, a differenza del pregiudizio, di cui è nella maggior parte dei casi immediato predecessore, non nasce con tratti esclusivamente negativi: è difatti un elemento cognitivo fondamentale di classificazione, necessario fin dall‟infanzia per immagazzinare ed elaborare le informazioni che provengono dall‟esterno. Lo stereotipo può però degenerare, diventando un modo di categorizzazione rigido e persistente, basandosi su una estensione, a tutti i membri di un determinato gruppo sociale, di caratteri che si ritengono tipici o costitutivi di quel gruppo
_________________________________________________________________________________
_________________________________________________________________________________
Tralasciamo gli innumerevoli pregiudizi di cui la società è al contempo vittima e carnefice (perché tutti – chi più, chi meno – facciamo parte di un determinato gruppo e non di un altro), e soffermiamoci sui pregiudizi linguistici in Italia.
Elemento fondamentale della nascita o del rafforzamento del pregiudizio linguistico nel nostro territorio è stato il programma di unificazione linguistica messo in atto a partire dall‟Unità dell‟Italia, che sosteneva la necessità di imporre
un modello linguistico estraneo alla stragrande maggioranza della popolazione e inevitabilmente di diffondere un‟idea negativa del dialetto, fino a dichiarare, con la legge Coppino del 1877 che “l‟obiettivo primario, al di là dell‟eliminazione delle tracce dei dialetti nell‟ortofonia e nell‟ortografia, è quello dell‟eliminazione dei dialetti”. Crollavano così i due capisaldi della concezione ascoliana:
# “i dialetti non possono essere meccanicamente sostituiti, per di più dall‟alto”. (Ruffino, 2011)
Vorrei a questo punto precisare una mia considerazione. Per quanto “violento” sia stato questo modo di agire da parte del governo neonazionale, e tenendo sempre presente l‟importanza che i fermenti filodialettali hanno avuto nella nostra storia linguistica, ritengo che un‟azione dura contro i dialetti e i regionalismi, sia stata necessaria in un primo momento per la creazione di una lingua unica, essenziale per uno stato coeso; credo inoltre che se pur ci sia stato da parte del gruppo dirigente un fattore egemonico verso i subalterni affinché questi rimanessero in una condizione di inferiorità (Francescato, 1996), in fondo l‟azione contro i dialetti è stata, solo ed esclusivamente nella fase iniziale, necessaria per creare praticamente da zero una lingua nazionale.
Tuttavia, per quanto ciò possa essere stato legittimo in passato, questo non esclude che oggi, essendo stato raggiunto lo scopo prefissato, sia necessario intervenire concretamente con un‟attività reale e applicativa per valorizzare i diversi patrimoni linguistici regionali.
Ritengo opportuno a questo punto analizzare la situazione legislativa italiana, concentrandomi in particolare sulla Sicilia, riguardo i provvedimenti linguistici all‟interno delle scuole.
Tutto ciò dovrebbe prevedere una forte attenzione del nostro governo verso le tematiche linguistiche, in particolare dialettali o minoritarie, attenzione che però in molti casi si è mostrata fioca e il più delle volte tardiva.
Il siciliano, all‟interno della classificazione dei dialetti italiani, è incluso nella sezione dei dialetti meridionali estremi, assieme ai dialetti del Salento e a quelli della Calabria meridionale (cfr carta n°1, pg. 10).
Inoltre, all‟interno della stessa Sicilia vi sono due comunità alloglotte, quella albanese (Piana degli Albanesi, Contessa Entellina, S.Cristina Gela) e quella galloitalica (Piazza Armerina, Sperlinga, Nicosia, ecc.) che convivono con l‟italiano e il siciliano, quest‟ultimo, secondo la classificazione messa a punto da Piccitto(3), ulteriormente suddivisibile in tre aree: il Siciliano Occidentale che comprende il Palermitano, il Trapanese, l‟agrigentino centro-occidentale; il Siciliano Centrale che comprende la parlata delle Madonie, il Nisseno-Ennese, l‟agrigentino orientale; il Siciliano Orientale che comprende le parlate del sud-est e del nord-est, il Catanese-Siracusano, il Messinese.
Interessante è osservare il contesto all‟interno del quale matura tale provvedimento: il dopoguerra italiano, subito dopo la caduta del fascismo, quando sono stati redatti i programmi per le scuole elementari e materne approvati con D.L n. 459 del 24 maggio 1945, provvisori e scarsamente attenti al rapporto italiano-dialetto (si raccomanda unicamente al maestro di evitare dialettalismi quando legge a voce alta), che in pratica confermavano la normativa precedente(4), la quale aveva oscurato i barlumi di una educazione linguistica
_________________________________________________
4. R.D. n.577 del 5 febbraio 1928; R.D. n.1297 del 26 aprile 1928.
________________________________________________________
rispettosa del dialetto, quale era quella della Riforma Gentile del ‟23, con i programmi Lombardo Radice(5), illuminato pedagogista siciliano.
Al decreto del 1951, preceduto dunque da attività legislative e culturali scarsamente attente alla tematica linguistico-dialettale, vengono allegati i nuovi programmi, la cui ampia e pertinente Premessa viene considerata un esempio di rigore e lungimiranza. Nella prima parte di questa vengono rese esplicite le particolari condizioni locali in cui si affermano le preoccupazioni del governo per la pubblica amministrazione, le quali hanno
“una doppia urgente finalità: liberare l‟isola nel più breve tempo possibile delle residue aliquote dell‟analfabetismo e della depressione culturale ed orientare la formazione dei fanciulli verso quelle finalità educative che, da una parte, scevre da ogni astrattismo, possano servire di fondamento alla più alta espansione di una libera personalità umana e dall‟altra, nei limiti della scuola elementare, possano realizzare le strutture fondamentali del cittadino moderno sulla consapevolezza riflessa di quei vincoli spirituali che lo legano indissolubilmente e originariamente all‟ambiente natio”.(6)
Viene inoltre considerato
(…) legittimo e preliminare che essa [l‟autonomia regionale] affondi sempre più le sue radici nella coscienza del popolo siciliano, elevandolo ad intendere meglio e, perciò stesso, a presidiare le profonde radici della sua riorganizzazione sociale ed economica e, con questa, i suoi più impegnativi doveri verso la collettività nazionale”.
___________________________________________________________________________
5. Per mostrare la differenza abissale fra il programma De Vecchi e quello Lombardo Radice si possono prendere in esame poche righe. Ad esempio, laddove Lombardo Radice scriveva che il maestro deve migliorare la propria didattica “Vivendo con animo partecipe la vita del suo popolo; riascoltando la voce dei grandi (…) cercando nuova guida al suo spirito in buoni libri”, De Vecchi oppone che il maestro “deve vivere con animo partecipe la vita della Nazione ravvivando (. . .) sulla voce dei Grandi”. Le modifiche attuate dimostrano infatti una tensione verso la storia Nazionale, per creare quasi una sorta di fede nei valori da essi esposti.
6. Per questa e per le altre citazioni di questo paragrafo la fonte è G.Ruffino Scuola, Dialetto, Minoranze linguistiche. L’attività legislativa in Sicilia (1946-1992), Palermo, 1992.
____________________________________________________________________________
“il fanciullo subisce due violenze che lo rendono più recalcitrante o un fantoccio: la prima consiste appunto nell‟elaborazione astratta di una organizzazione di idee alla quale egli perviene senza una partecipazione attiva e vissuta della sua vita interiore; l‟altra, nella obliterazione sistematica di questa sua vita, respinta sempre come una vita inferiore, della quale egli debba quasi vergognarsi, una volta che la scuola, con tutta la solennità del suo prestigio, ostenta di ignorarla, quando apertamente non la nega e non la disprezza. (…) il fanciullo vive nella scuola una doppia vita (…), motivo non ultimo questo della povertà interiore della nostra vita scolastica, che decade sempre più al valore di una necessità strumentale e pratica che bisogna subire”.
A proposito del problema dell‟educazione nazionale, si sottolinea con forza e passione – perché questa è una legge che nasce da autentiche passioni e tensioni ideali – che la scuola può essere contemporaneamente regionale e nazionale solo se si riesce a vivificare i valori della tradizione regionale “per trarre dalla loro ricchezza i richiami ad una capacità di ritrovarsi con piena libertà in un mondo spirituale più vasto, questo è il compito precipuo di una scuola regionale educativa”, ma tutto ciò resterebbe una enunciazione astratta se non si attingesse ai “principi immediati della condotta che l‟individuo vive nella sua prima esperienza”, e tra questi in primo luogo vi è sicuramente il linguaggio natio.
Alla fine della premessa si giunge così alla definizione di un diverso approccio del maestro con la cultura regionale: esso dovrà tenere costantemente presente “l‟opportunità di non respingere i motivi della coscienza e della cultura regionale”.
Per quanto riguarda i programmi, in quelli concernenti la lingua italiana ritorna per intero la concezione educativa di Lombardo Radice. Tra le Avvertenze correlate si ritrova:
“solo si reputa necessario sottolineare, nello sviluppo dell‟insegnamento, in tutte le sue fasi, l‟opportunità di coltivare quel complesso di sentimenti e quel particolare pathos che sostanziano e caratterizzano l‟anima regionale: e poiché essi si rivelano immediatamente e genuinamente nell‟espressione dialettale, ne consegue che questa deve essere assunta come un elemento positivo del processo dell‟educazione; e, da una parte va elaborata e trasfigurata nell‟acquisto progressivo della lingua nazionale, dall‟altra va considerata come il mezzo unico e naturale col quale la coscienza infantile si rivela all‟educatore”.
Nonostante ciò non si può ignorare il fatto che proprio in questi anni, all‟interno di una società che lentamente stava risorgendo dalle macerie della guerra, mentre la scuola stentava ad uscire da condizioni di forte arretratezza e le prospettive di un rinnovamento nell‟educazione linguistica, come abbiamo visto, cadevano nel vuoto, nacquero una nuova “questione della lingua” e nuove forme di impegno militante: i ripetuti interventi di Pasolini e Calvino; l‟insegnamento di Don Milani, che dichiarava «la lingua ci fa uguali», analizzandola nel suo aspetto sociale(7); la presenza di nuovi libri di grammatica nei quali il rigido impianto normativo viene abbandonato per rivolgere maggiore attenzione alle varietà del repertorio linguistico italiano, con particolare riguardo all‟italiano regionale e al dialetto; l‟impegno di una nuova generazione di linguisti (Tullio De Mauro) e insegnanti elementari (Gianni Rodari, Bruno Ciari) che, assieme ai nuovi movimenti e alle nuove associazioni (SLI, GISCEL, CIDI, MCE) risposero all‟esigenza di far acquisire l‟italiano senza traumi, senza creare complessi nei riguardi del dialetto e della cultura dialettale.
Soltanto alla fine degli anni ‟70 venne presentato un significativo disegno di legge di iniziativa governativa riguardante “provvedimenti intesi a favorire lo studio del dialetto siciliano e delle lingue delle minoranze etniche nelle scuole dell‟Isola”(8). Questa proposta legislativa il 6 maggio 1981 divenne a tutti gli effetti legge della Regione Siciliana (L.R. n.85 ). Tra gli interventi più interessanti:
a) L‟autorizzazione per “attività integrative volte all‟introduzione dello studio del dialetto ed all‟approfondimento dei fatti linguistici, storici, culturali ad esso connessi ” (art.1),
b) La concessione di contributi “per l‟acquisto di sussidi didattici e di testi da utilizzare per la sperimentazione” e “per la corresponsione ai docenti che, in aggiunta al normale orario di servizio, espleteranno anche l‟attività integrativa di insegnamento del dialetto (art. 3);
c) L‟istituzione o la promozione da parte dell‟Assessorato regionale di corsi di aggiornamento culturale sulla materia del dialetto siciliano per i docenti
8. Presentato il 15 dicembre 1979 dal Presidente della Regione Sicilia Pier Santi Mattarella su proposta dell‟Assessore per i Beni Culturali e ambientali e per la Pubblica Istruzione Luciano Ordile.
_________________________________________________________________________________
Già al momento della discussione in aula del disegno di legge si sviluppò sulla stampa siciliana un serrato dibattito in merito al valore e al significato della legge, i suoi presupposti e le prospettive: si alternarono opinioni favorevoli (Buttitta, Lo Piparo), contrarie (Farinella), scettiche (Calvino, Sciascia). In particolare Lo Piparo, in quanto linguista particolarmente attento alla questione, puntualizzò che sarebbe stato “scientificamente scorretto e politicamente nocivo studiare e fare studiare i dialetti come realtà linguistiche separate dalla lingua italiana, e [sarebbe stato] altrettanto scorretto e nocivo studiare e fare studiare la lingua italiana senza collegarla con lo studio dei dialetti italiani. Lo stesso discorso vale per la letteratura”.
Un dibattito tuttavia poco determinante, se pur molto sentito dai partecipanti, considerando che, per la carenza degli strumenti didattici e per la indisponibilità ad attivarli, la legge n.85/1981 fallì nel giro di pochissimi anni.
A questo punto si arriva alla sopracitata normativa del 1985 (D.P.R 14 maggio 1985, n. 246) che porta il titolo “Norme di attuazione dello Statuto della Regione Siciliana in materia di pubblica istruzione”: si stava finalmente aprendo uno spiraglio verso la prospettiva di una organica e complessiva politica scolastica della regione. Tale normativa, tuttavia, non concedeva un adeguato spazio all‟educazione linguistica in merito al dialetto, e per questo vennero presentati tre disegni di legge di iniziativa parlamentare sulla base dell‟art 4 delle Norme di attuazione, che consente la istituzione di “insegnamenti di interesse regionale integrativi delle materie previste dalla normativa statale nel rispetto delle norme sullo stato giuridico del personale docente”: il ddl n.139 del 6 dicembre 1986, dal titolo “Norme per consentire l‟integrazione dei programmi d‟insegnamento scolastico nella Regione siciliana” e il successivo ddl n.165 del 7 gennaio 1987 dal titolo “Norme per consentire ai circoli didattici l‟integrazione dei programmi di insegnamento scolastico” prevedevano come insegnamento integrativo il “dialetto siciliano” nelle scuole elementari e “dialettologia” nella scuola media di primo grado. Il terzo disegno di legge, n.499 del 22 aprile 1988 dal titolo “Attuazione del diritto allo studio a favore degli studenti delle scuole elementari e medie inferiori e superiori” prevedeva nelle scuole elementari “lo studio del dialetto siciliano”, mentre nelle scuole medie inferiori e superiori si aggiunge, oltre allo studio del dialetto, un “approfondimento dei fatti storici e culturali ad esso connessi”.
Questi tre disegni di legge successivamente vennero in parte inglobati nel ddl n.50 del 9 ottobre 1991 sugli “interventi per l‟attuazione del diritto allo studio in Sicilia”, in cui però l‟unico accenno al problema linguistico si ha nel pt f) dell‟art. 1, dove viene enunciata la finalità di
“promuovere e sostenere attività di legislazione anche con l‟istituzione di insegnamenti di interesse regionale e con lo studio di discipline volte a favorire una consapevole educazione ambientale, e di una seconda lingua estera, garantendo il rispetto e lo studio del dialetto siciliano, nonché lo sviluppo delle culture locali, con particolare tutela per le minoranze linguistiche”.
Questo accorpamento all‟interno di un solo articolo di elementi assai diversi quali l‟educazione ambientale, la lingua straniera, il dialetto e le minoranze linguistiche conferisce al tutto un‟impronta di approssimazione, considerando per di più che si usa con riferimento alle culture locali e alle minoranze linguistiche il termine “sviluppo”, in questo caso sicuramente improprio (Ruffino, 1992).
Inoltre la legge tratta in maniera sommaria e generica la parte relativa alla scuola dell‟obbligo e alle medie superiori. Ad esempio, i programmi scolastici relativi alla scuola primaria presentano, riguardo all‟educazione linguistica e al rapporto con il dialetto, solo la considerazione che “il fanciullo ha un‟esperienza linguistica iniziale di cui l‟insegnante dovrà attentamente rendersi conto e sulla quale dovrà impostare l‟azione didattica”; mentre i programmi della scuola media ribadiscono che “la particolare condizione linguistica della società italiana, con la presenza di dialetti diversi e di altri idiomi o con gli effetti di vasti fenomeni migratori, richiede che la scuola non prescinda da tali varietà di tradizioni e di realtà linguistica”.
Si nota bene dunque che dal 1951 al 1991 si è avuta una progressiva distrazione dalle tematiche linguistiche inerenti al dialetto rispetto alle esigenze vivissime nel decreto del ‟51.
Per quanto riguarda, inoltre, la proposta di «insegnamenti aggiuntivi», in particolare di quelli che presentano un carattere linguistico-dialettologico, non tutti sono concordi. Il rischio è difatti molteplice:
# Potrebbe determinarsi da un lato una sorta di «perniciosa ipertrofia didattica» (Ruffino, 1992), dall‟altro un marginalizzazione delle materie stesse.
Concludendo la rassegna della legislazione scolastica in ambito linguistico, bisogna ricordare la legge regionale più recente, emanata meno di un anno fa, che riporta il titolo “Norme sulla promozione, valorizzazione ed insegnamento della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico siciliano nelle scuole” (L.R. n.9 del 31 maggio 2011), la quale ha suscitato un vivo dibattito, cui hanno partecipato eminenti studiosi –Andrea Camilleri, Vincenzo Consolo, Enzo Sellerio, Giovanni Ruffino, Franco Lo Piparo ecc – che ricorda il già citato dibattito di trent‟anni fa in relazione alla legge del 1981.
I profondi cambiamenti della società (ad esempio il fenomeno leghista che ha trasformato i valori dialettali in mera propaganda politica) portano alla necessaria assunzione di precauzioni. Su ciò ci fa riflettere anche il recente intervento di Lo Piparo nato in seno al dibattito suddetto, secondo cui la “striminzita relazione che accompagna la proposta di legge” mostra a chiare lettere la totale ignoranza di ciò che si vuole tutelare e, purtroppo come previsto, il rischio della demagogia. Tutto ciò diviene sempre più concreto quando ci si rende conto che le attività del Governo Regionale vanno nel senso opposto: si è declassato il Centro di studi filologici e linguistici siciliani –l‟istituzione più antica, prestigiosa e attiva della regione– e quasi contemporaneamente si è rifiutata la proposta avanzata da linguisti, storici e antropologi di diverse Università siciliane, di redigere, con finalità scolastica, un testo di storia linguistica e culturale della Sicilia, basato sulla consapevolezza che non sia possibile studiare la storia linguistica della Sicilia a prescindere dalla storia linguistica e letteraria dell‟Italia, così come non esiste storia della lingua italiana senza la storia dei dialetti.
Se allora non ci si lascia guidare da veri esperti nel settore – o meglio nei settori – come sarà possibile intervenire organicamente, in maniera seria e profonda sull‟educazione linguistica?
E difatti non è possibile, come dimostra la scarsa messa in pratica dei programmi ministeriali in questo ambito. Pochi sono gli insegnanti che approfondiscono a scuola i fatti storici e socio-culturali connessi con il dialetto, sebbene nel 64,3% dei casi gli studenti si dichiarino favorevoli a studiarlo.
Per concludere, bisognerebbe capire che difficilmente si riuscirà a migliorare la didattica linguistica se molti insegnanti non cambieranno i loro personali giudizi sul dialetto perché se “gli insegnanti continueranno a esprimere giudizi sul dialetto «sciatto» e «sbagliato» contrapposto alla lingua «grammaticale», i bambini finiranno col convincersene, anche perché, quasi sempre, i giudizi espressi in famiglia sono dello stesso tipo” (Ruffino 2006, 44).
Nel 1836 con un Decreto Reale il sobborgo di Favarotta, facente parte del Comune di Cinisi, venne aggregato al Comune di Terrasini, aggiungendosi come quartiere a quelli già esistenti (Castello, Piazza, Madrice, Marina). Favarotta nacque probabilmente nel XVII secolo in prossimità di una sorgente d’acqua, la fonte Favara (dall’arabo fawara), origine del toponimo. Da quel momento e, per molto tempo, il Comune prese il nome congiunto di Terrasini-Favarotta, ma le due realtà, seppur adesso politicamente e anche urbanisticamente fuse in una sola, sono rimaste a lungo culturalmente e socialmente separate, tanto da poter affermare che il centro abitato potrebbe essere diviso in tre parti secondo la prevalenza del mestiere: una zona a monte della via Mons. Evola abitata prevalentemente da contadini, una zona centrale abitata da gente occupata nel settore terziario e la zona della marina abitata da pescatori e commercianti del pesce (11).
__________________________________________________________________________
Anche questa volta i genitori hanno mostrato un atteggiamento positivo, nell‟incitare i figli a non trascorrere molto tempo davanti la televisione, e presumibilmente incitandoli ad altri hobbies. È interessante confrontare questi risultati con la domanda n° 27 per il gruppo A e n° 23 per il gruppo B: “I tuoi genitori ti rimproverano o ti hanno mai rimproverato se parli in siciliano?”
Si mostra così il rapporto tra genitori e figli all‟interno dell‟educazione linguistica e sociale. Sono pochi i casi in cui i genitori rimproverano con assiduità i figli a causa dell‟uso del vernacolo, anche se nella maggior parte dei casi essi li rimproverano in maniera sporadica, presumibilmente in relazione alle circostanze (scherzose, serie) e alle persone che partecipano alla discussione (più o meno colte, più o meno in alto nella scala sociale).
“Qualcuno dei nonni vive in casa con te?”
Per quanto riguarda invece l‟opzione „sia in siciliano sia in italiano‟, si riscontra una totale superiorità, in tutte le classi, rispetto all‟opzione „in italiano‟ per quanto riguarda il dialogo fra genitori e nonni e una parziale superiorità per quanto riguarda il dialogo dei genitori fra di loro (fanno eccezioni tre classi: la quarta della scuola primaria, la prima e la seconda della scuola secondaria di primo grado). Vediamo, dunque, che, se pur in molti casi in famiglia si parli il siciliano, questo viene considerato non confacente ai rapporti sociali extrafamiliari, confermando dunque l‟idea stigmatizzante del dialetto rispetto all‟italiano che appare in alcuni dei testi posti in Appendice. D‟altra parte la predilezione per l‟italiano emerge chiaramente dai risultati posti in questa tabella: se si confrontano il numero di attestazioni della lingua nazionale con quello del siciliano si nota che quest‟ultimo presenta una quantità maggiore di risposte in suo favore solo in due casi, ad eccezione ovviamente del dialogo fra genitori e nonni che abbiamo detto essere la circostanza in cui il dialetto viene maggiormente parlato.
“Da piccolo hai iniziato a parlare in siciliano o in italiano?
Il risultato della seconda domanda è chiaro: i ragazzi intervistati, quando incontrano una persona per la prima volta, gli parlano in italiano. Chiare sono pure le motivazioni: ancora l’italiano viene considerato la lingua del prestigio, dell’eleganza e della raffinatezza, per cui, se si vuole fare una buona prima impressione è opportuno non parlare il vernacolo. Ma ancora dobbiamo aggiungere il “divieto” da parte dei genitori, come afferma una bambina di Terrasini che dice “Mamma mi dice a casa si, ma a scuola no, però qualche parolina scappa sempre”, come se fosse una colpa e, appunto, un evadere le regole che la famiglia (quasi sempre la mamma, tra l‟altro) stila per vincolare i rapporti sociali dei figli.
Tutto ciò però non vale se l‟interlocutore parla in dialetto, sia perché in questo modo non ci si pone più il problema di „sembrare educati‟, di „parlare male‟ o di non farsi capire, ma anzi, spesso, si pensa che l‟interlocutore (soprattutto se anziano) non sappia parlare in nessun‟altra lingua e parlando in italiano si potrebbe ostacolare la comunicazione o mostrarsi superiori e in ogni caso distaccati.
Sorprendentemente, invece, contro le mie aspettative, mettendo a confronto la parlata terrasinese con quella dei paesi limitrofi, essi non trovano una altrettanto netta differenza (tranne in due sole classi), e il dato risulta interessante in particolare per la scuola secondaria di secondo grado, in cui all‟interno di una stessa classe si ritrovano alunni provenienti da comuni diversi. Evidentemente è ancora insufficiente la piena percezione della variazione diatopica.
_________________________________________________
17 G. Ruffino, 1973
Domanda n°34 (solo per il gruppo A):
Per il gruppo B, tale domanda è stata formulata all‟interno di uno schema di affermazioni: si richiedeva agli studenti se fossero d‟accordo o meno con tali affermazioni. La domanda n° 28 era difatti
“Condividi queste opinioni?”,
ed ecco i risultati:
“Come si dice in siciliano…”
“Come si dice in italiano…”
Sebbene gli avessero fatto un’incomprensibile premura, Nicodemo non si era stranizzato affatto. Montò sulla stessa macchina che fino al giorno prima era rimasta dal lattoniere, mise avanti il motore, accellerò e si avviò rombando: doveva assolutamente spicciarsi, non c’era proprio da babbiare. Mentre guidava, diede uno sguardo alla lista delle cose da fare: passare dal fallegname, ricordare al corniciaio il cambio di quel colore che tanto lo aveva messo a disaggio ; acquistare dal pescivendolo scorfani, luvari, triglie, merluzzi, vope e polipi; rifornirsi dal macellaio di trinche, lacerto, filetto e capoliato. Nonostante Agata gli avesse gridato dal balcone: “ Vai piano! Senza correre!”, e con tutto che il traffico era intenso, Nicodemo raggiunse in pochi minuti la periferia, entrò la macchina nel garage dove solitamente parcheggiava e incominciò il giro consueto. Il caldo era insopportabile e sudò copiosamente; ma in mettà del tempo previsto, pescivendolo e macellaio erano stati già bell’e visitati; il tappezziere consegnò la tenda puntualmente; il fallegname si giustificò dicendo che era stato partito per un imprevisto e non aveva potuto ultimare il lavoro. Nicodemo, che si sentiva addosso come una febbre d’arsura, rientrò precipitosamente a casa dove, quanto meno, avrebbe potuto soffiarsi col rudimentale ventaglio della vecchia zia.
___________________________________________________________________________________
Dati, questi, che mi fanno riflettere e mi legittimano a spendere altre due righe in merito. Che cosa vuol dire che a un capitale culturale alto corrisponde un tasso di dialettofobia basso? Che cosa vuol dire il contrario? Ciò significa che i ragazzi inseriti in un contesto familiare relativamente colto, negli anni ‟80 non dimostravano avere considerazioni negative sul dialetto e assumevano atteggiamenti favorevoli alla diffusione di questo, con un rapporto dunque che può essere definito “pacifico”. Oggi invece è come se si fossero creati due atteggiamenti assai diversi, con incidenze sui rapporti sociali dei filodialettali rispetto agli antidialettali e viceversa; se poi in particolare i filodialettali sono prevalentemente dialettofoni e gli antidialettali prevalentemente italofoni si avranno chiaramente fenomeni di esclusione da una parte e agglomerazione tra simili dall‟altra.
Bibliografia e linkografia
Allport G.,
1973, La natura del pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia
Catalfio A. – La Duca R.,
2010, La toponomastica antica di Terrasini-Favarotta, a cura di Francesco Armetta, Salvatore Sciascia Editore
Francescato G.
1986, Il dialetto muore e si trasfigura, in «Italiano e oltre», I. 5.: 203-205
Francescato G.
1996, Dialetti, lingua regionale e lingua nazionale nella scuola. Situazione e prospettive, in «Saggi di linguistica teorica e applicata», Alessandria, Edizioni dell‟Orso: 207-224
Luperini R. – Cataldi P.,
2000, La scrittura e l’interpretazione. Storia e antologia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea, ed. rossa, vol 2
Migliorini B.,
2001, Storia della lingua italiana, Bompiani Editore
Patota G.,
2007, Nuovi lineamenti di grammatica storica dell’italiano, Il Mulino
Piccitto G.,
1959, Il siciliano dialetto italiano, «Orbis» 8
Porcelluzzi E.,
2010, “La parola ci fa uguali”: il pensiero di don Milani, un grande prete polemista, 05/02/2010, da Il Bianco e il Rosso, www.ilbiancoeilrosso.it
Ragazzini D.,
2009, I programmi della scuola elementare durante il fascismo, da [http://www.historied.net], Studi e risorse per la storia dell‟educazione
Renzi L. – Andreose A.,
2003, Manuale di linguistica e filologia romanza, il Mulino, Bologna
Rinaldi G. M.,
2008, Dal latino al romanzo. Modi e aspetti della transizione, Palermo
Ruffino G.,
1973, Parlata agricola e parlata marinara a Terrasini (Palermo)
Ruffino G.,
1992, Scuola Dialetto. Minoranze linguistiche. L’attività legislativa in Sicilia (1946-1992), Palermo
Ruffino G.,
2006, L’indialetto ha la faccia scura. Giudizi e pregiudizi linguistici dei bambini italiani, Sellerio editore, Palermo
Ruffino G.,
2008, Sicilia, da Profili linguistici delle regioni a cura di Alberto A. Sobrero, Editori Laterza
Ruffino G.,
2011, Un dialettologo tra i banchi, Palermo
Santagata M. – Carotti L.,
2010, Il filo rosso. Antologia e storia della letteratura italiana ed europea, Laterza, Bari
Zerilli D.,
1992, Terrasini –elementi di una identità culturale, Terrasini
9 anni – via Cala Rossa [Calarossa]- ?
La differensa dell‟Italiano e il siciliano e che L‟Italiano e più facile da comprendere e il siciliano e complicato. L‟Italiano è più pulito nel modo di parlare perche il siciliano e meno comprensivo.
L‟Italiano è una lingua che si parla in tutta l‟Italia. Invece il siciliano è un dialetto di una regione in questo caso la Sicilia,ma ci sono anche altri dialetti in altre regioni come il Dialetto Toscano. Come il calabrese.
L‟italiano è una lingua che si parla in tutta l‟italia.Il siciliano è una lingua che si parla solo in una regione in questo caso la sicilia.
La differenza tra la lingua italiana o quella siciliana si parla in diversi modi di parlare. In italiano,uguale alla città d‟Italia e in siciliano in dialetto.
Secondo me la differenza fra l‟italiano e il siciliano è che una lingua un pò più volgare dell‟italiano. L‟italiano è parlato in tutta italia mentre il siciliano solo in Sicilia.
Secondo me,italiano si parla in tutto il mondo ed è un lingua parlata. Il siciliano è una lingua dialetta.
Il siciliano non è molto diverso dall‟italiano infatti molte parole sono uguali ma anche parole completamente diverse ma di significato uguale come la parola “racina” che significa “uva” e invece uovo si dice sempre uovo
L‟italiano per la gente è una lingua più pulita rispetto al sicilano. Per me non molto, in famiglia la parlano tutti e sono stata abituata fin da piccola a parlare il dialetto sicilano,che per me è fantastico. Però a scuola mi trattengo. Mamma mi dice a casa si,ma a scuola no,però qualche parolina scappa sempre.
Be per italiano sono daccordo si mi piace,il siciliano non tanto,l‟italiano è più sistemato invece il sicliano no Nella lingua parlata quà in sicilia non è sistemato non mi piace
L‟italiano per me è una lingua chiara per tutti,comprensibile. Per me è cosi perché io parlo sempre italiano. Il siciliano non penso che è molto chiaro per far capire tutti quello che vogliamo dire e per esprimerci.
Il siciliano secondo me è più che altro un dialetto della nostra Sicilia grande e non proprio una lingua. L‟italiano si può parlare in tutta l‟Italia e anche qui e l‟Italiano è molto sistemato.
Per me la differenza fra Italiano e siciliano e molta,il siciliano Brutto non per noi ma per i turisti invece si l‟ Italiano è più raffinato e si capisce meglio,ma ci sono altri dialetti delle altre regioni.
La differenza tra un siciliano e un‟ italiano e che il siciliano a tradizioni e dialetti invece l‟italiano non è ha dialetti,Il siciliano si parla in Sicilia,l‟italiano in tutta l‟italia. Qua in sicilia abbiamo un sacco di tradizioni tipo la festa degli schietti,santa Rosalia,i cannoli,le sfinge di san Giuseppe ecc. Invece in italia c‟ è il papa,e le cose politiche. Tutte queste cosa differenzia l‟italia e la Sicilia.
Secondo me la differenza tra italiano e siciliano è: l‟italiano è una lingua molto sofisticata, si capisce quello che si dice, ed è molto semplice ai bambini. Invece il siciliano ha delle parole molto strane,ed viene usata soprattutto dai grandi e viene sempre usata qui dove abitiamo noi
La differenza tra il Siciliano e l‟Italiano e che l‟Italiano si parla In tutta Italia e più conosciuto il Siciliano e meno conosciuto e ci sono meno errori
Secondo me la differenza tra italiano e siciliano è quella che italiano è una lingua normale e sofisticata, ma pure semplice. Invece il siciliano è una lingua per lo più che usano i grandi ed è un pò più complicatina di quella italiana che è tanto usata nel nostro territorio.
Secondo me la differenza tra l‟italiano e il siciliano e che in siciliano si parla più difettosi e con errori in italiano si parla senza errori e anche meglio
Secondo me è giusto parlare sia Siciliano che italiano. L‟italiano è la nostra lingua patria ed è giusto parlarla correttamente, è la lingua che studiamo, che parliano e che ci serve per vivere per scrivere e per leggere. Senza l‟italiano saremmo analfabeti e ignoranti. Quindi è giusto studiarla e parlarla il siciliano è il nostro dialetto che si deve anche parlare perché conserva le nostre tradizioni, la nostra storia. Perché il Siciliano è importante perché è la lingua dei nostri antenati siciliani, quindi è giusto parlare il siciliano perché è bello conoscere la nostra provenienza e la nostra storia.
Secondo me, la differenza tra italiano e siciliano è che il siciliano per noi è più facile da parlare però ci fa sembrare rozzi invece l‟italiano ci fa sembrare educati. Il siciliano non si dovrebbe parlare però se qualche parola scappa ogni tanto, non fa mare, infondo è sempre il nostro dialetto che appartiene alla nostra tradizioni siciliano.
Secondo me tra l‟italiano e il siciliano c‟è una bella differenza. Il siciliano è una bella lingua perché è la nostra storia e la nostra origine. Se noi, i nostri genitori, i nostri nonni non tramandassimo questa lingua, molti documenti, molte poesie e molti pensieri scritti in questa lingua non si saprebbero leggere e una parte della nostra storia andrebbe perduta. Secondo me parlare in siciliano ci aiuta ad avvicinarci alla nostra terra e alle persone che sanno parlare questa lingua. Però è bene saper parlare anche un italiano corretto, perché se in futuro possiamo incontrare persone molto note e se non sappiamo parlarlo ci facciamo una brutta figura. Ogni regione ha il suo dialetto e ogni dialetto ha una sua origine e una sua storia.
L‟Italiano è la lingua ufficiale della nazione siciliano è una lingua regionale, che si parla solo in sicilia.